Legambiente presenta il progetto di riqualificazione dell’oasi di protezione “Torre Calderina” (Molfetta – Bisceglie)
Rinaturalizzare e riqualificare un’oasi dimenticata da anni. Legambiente Puglia lancia un progetto di recupero dell’oasi di protezione “Torre Calderina”, localizzata lungo il tratto di costa tra Molfetta e Bisceglie. La presentazione è avvenuta nel corso del Terzo Meeting Nazionale della Rete Italiana Città Sane – Oms: “Città Sane: costruire la governance per la salute”, svoltosi a Potenza il 22 e 23 aprile 2004.
Il progetto, realizzato nell’ambito del I Piano d’Azione Ambientale del Forum Agenda 21 della Città di Molfetta con il sostegno della Rete Pugliese Città Sane - Oms, si pone ambiziosi obiettivi: il restauro paesaggistico di un tratto di costa dai connotati naturalistico-ambientali assai rilevanti e però da decenni minacciata dal degrado e dall’incuria (discariche abusive, scarichi fognari); una fruizione sostenibile e innovativa della costa, resa compatibile con le peculiarità paesaggistiche e la presenza nell’area di rare specie avi-faunistiche; la realizzazione di un percorso ciclabile costiero che colleghi i due Comuni interessati dall’oasi.
«Oltre 12 km di pista ciclabile, un importante corridoio ecologico costituito da una lama che proietta verso il Parco Nazionale dell’Alta Murgia la nostra oasi costiera, una stazione di sosta indispensabile per gli uccelli migratori: il progetto di recupero dell’Oasi Torre Calderina si distingue, oltre che per la natura degli interventi previsti, anche per il metodo adoperato», puntualizza Massimiliano Piscitelli (Coordinatore provinciale di Legambiente). «La necessità di intervenire in quest’area è nata in seno al Forum Agenda 21 del Comune di Molfetta e ha coinvolto fattivamente nella fase di redazione del progetto le cittadinanze molfettese e biscegliese».
«L’inquinamento delle acque ha paradossalmente protetto la costa tra Bisceglie e Molfetta dalla cementificazione», aggiunge Domenico Enrico Delle Foglie (Coordinatore del Forum Agenda 21 della Città di Molfetta). «Pensiamo sia opportuno sfruttare quest’occasione e avviare una serie di azioni che, però, non debbono esaurirsi nella sola tutela passiva di quest’area. È per questo motivo che accanto all’eliminazione del degrado stiamo pianificando vari interventi di riqualificazione che contemplano anche l’inserimento di attività produttive nell’oasi».
«Chiaramente abbiamo inserito soltanto attività compatibili con i delicati equilibri del paesaggio costiero», completa il pensiero l’arch. Valeria Freddi (consulente di Legambiente). «Partendo da un’attenta analisi del sito abbiamo tarato le trasformazioni alle singole situazioni. Diamo un occhiata a due casi estremi: in alcune aree abbiamo programmato l’insediamento di attività turistiche (pur sempre strutturate in modo da minimizzare la pressione sull’area) perché ci sono le condizioni per farlo o perché questo di tipo di uso della risorsa-territorio ha controindicazioni minori di quelle portate dall’uso attuale; mi spiego meglio: cos’è meglio sulla costa, una marmeria o un albergo? Ma laddove le trasformazioni rischiano di creare un danno ad una delle componenti di pregio si è preferito dare priorità alle esigenze della tutela; per questa ragione vasti tratti di costa sono stati lasciati liberi a vantaggio dei più fedeli visitatori di quest’area: gli uccelli marini».
Quanto alla necessità, ormai acclarata, di procedere alla pianificazione del futuro dell’area secondo un approccio sistemico e quanto più rispettoso di tutte le componenti di pregio che contraddistinguono l’oasi, risale solo a tre giorni fa una sentenza pronunciata dal Tar – Puglia. «Nei giorni scorsi – spiega Piscitelli – il Tar pugliese ha accolto un ricorso presentato dal comitato regionale di Legambiente, bocciando sonoramente una discutibilissima operazione tentata da un imprenditore locale e, quel che è più grave, già approvata sia dal Comune di Molfetta sia dalla Regione Puglia: la realizzazione all’interno dell’oasi di un vero e proprio complesso residenziale, fuori da ogni logica di pianificazione».
Scommettere su un nuovo e più lungimirante concetto di ‘economia’, che coinvolga molte altre variabili importanti nella vita di una comunità, è, inoltre, tra i massimi obiettivi di Legambiente e di tutti quanti hanno contribuito alla redazione del progetto. «Non dobbiamo dimenticare che, accanto alle ricadute economiche dirette ed indirette prodotte da un’operazione di riqualificazione di questo genere - precisa Delle Foglie - si producono una serie di benefici non quantificabili in termini monetari, ma altrettanto importanti: conservare la propria identità culturale e le proprie tradizioni, vivere in un ambiente sano, adottare stili di vita salutari, è tutt’altro che secondario. Assieme a Città Sane - Oms stiamo lavorando proprio in questa direzione e non è un caso che l’oasi naturale si organizzi intorno a un tracciato ciclabile che stimola ad abbandonare le automobili e ad usare le gambe».
In allegato: la cronaca immaginaria di una passeggiata virtuale nell’oasi di “Torre Calderina”, secondo il progetto di Legambiente Puglia.
Potenza, 22 aprile 2004
Tiziana Ragno,Ufficio Stampa Legambiente Puglia
allegato
Un’oasi a due ruote
Cronaca di una passeggiata nel futuro possibile del tratto di costa tra Molfetta e Bisceglie
di Tiziana Ragno
È una bella giornata di sole, oggi. Di quelle che ti invogliano a tirare fuori dalla cantina la vecchia bicicletta, chiusa lì dentro chissà da quanto tempo. Ma in città occasioni e spazi per pedalare o anche solo per passeggiare comodamente senza ostacoli sono davvero pochi, praticamente inesistenti. Qualche amico mi ha parlato di un percorso ciclabile, accessibile solo da qualche mese, che corre lungo il tratto di costa tra Molfetta e Bisceglie. Sapevo che da tempo i due Comuni con Legambiente lavoravano alla realizzazione di un progetto di riqualificazione di quell’area - la cosiddetta ‘oasi avifaunistica di Torre Calderina’ - nota, per la verità, più per l’incomoda presenza di numerosi scarichi a mare della fogna, che per il passo stagionale degli uccelli. Evidentemente, però, qualcuno avrà creduto in un altro futuro possibile da riservare all’oasi. «Passeggiata meravigliosa tra antichi pagghjari, muretti a secco, fichi d’india e ulivi centenari, rigogliosi orti e suggestive calette»: questo è quel che in giro si dice da tempo.
Sarà, ma dell’ultima mia passeggiata fatta da quelle parti mi è rimasto soltanto il ricordo delle micro-discariche sparse per ogni dove, dei canali di scolo a cielo aperto che finivano a mare, dei capannoni che poco distanti da Torre Calderina distraevano la vista dal resto del paesaggio. E, soprattutto, dell’acre odore di tensioattivi, segno ennesimo e inequivocabile delle pessime scelte e dei mancati controlli che da anni pesavano sullo stato di salute di quell’area.
Il percorso ha inizio dal parco urbano sorto recentemente a ridosso della Basilica della Madonna dei Martiri: una vera zona verde, completamente fruibile, senza cancelli e recinti o fastidiosi divieti d’accesso alle aiuole. «Area prevista dal piano regolatore di Molfetta», mi dice un informato residente del quartiere, divenuto assiduo frequentatore del parco. «Fortuna che non ci abbiano ripensato… Pensi che qualcuno aveva persino in mente di farci piattaforme per container di servizio al porto o qualcosa di simile!».
Proseguo lungo la pista, ma pochi metri più avanti un’altra sosta mi attende. Due mastri funai sono al lavoro, tra pesanti cordami di canapa e curiosi attrezzi per l’intrecciatura e la torcitura: siamo nella zona del Tiro a Segno e quello che ho dinanzi a me è uno dei pochissimi esempi del mestiere di feschelare rimasti a Molfetta. I due artigiani mi dicono che la loro attività era in crisi a causa delle difficoltà del settore della pesca per il quale avevano sempre lavorato. Ora, dopo la rinascita dell’oasi, oltre ad essere diventati meta di curiosi e di scolaresche alla ricerca di antichi mestieri, hanno ricominciato a produrre cime e canapi per i tradizionali gozzi (assemblati dai “mastri d’ascia” dei cantieri molfettesi), su cui i visitatori dell’oasi si imbarcano, percorrendo le rotte costiere che lambiscono l’area.
A Cala San Giacomo (tappa successiva del mio percorso) i cumuli di rifiuti sono davvero spariti: questo tratto di costa ora è una vera spiaggia, pubblica, attrezzata e, devo ammettere, anche comoda. È tutto pronto per l’estate ormai alle porte: nascosta dietro un parapulo e un muretto a secco c’è una costruzione semi‑ipogea che ospita i servizi alla spiaggia, compreso un bar «molto trendy» (si dice così!). Più in là c’è un parcheggio, ma questo quasi scompare nel paesaggio perché, invece d’essere organizzato come un piazzale deserto, è pieno di alberi e arbusti che, tra l’altro, faranno ombra ai mezzi in sosta.
Alla spiaggia è possibile arrivare anche con l’autobus: la fermata della linea 4 sulla SS 16, poco distante, consente di raggiungerla anche a chi non usa o non vuole usare l’auto. Incredibile come solo adesso mi accorga che questa cala è la parte terminale dell’alveo di una lama: mi hanno riferito che fortunatamente si è riusciti a salvaguardarne almeno l’ultimo tratto, limitando l’estensione della nuova zona industriale di Molfetta (Asi) all’area al di là della ferrovia.
Costeggio un lido privato (anche qui, se la memoria non m’inganna, ricordo volumi di rifiuti accumulati sulla battigia) e poi moltissimi orti: sono assai bene curati, da queste parti la terra «d’acqua salmastra» – come usano dire i contadini – è fertile ed adatta soprattutto a produrre pomodori. «Area coltivata ad agricoltura biologica», leggo su molti cartelli che segnano l’ingresso agli orti. Pare che il rilancio dell’oasi abbia consentito ai contadini della zona di ottenere finanziamenti per il passaggio a nuove tecniche di coltivazione, più rispettose dell’ambiente e soprattutto delle nostre tavole, spesso così carenti di sapori.
Di parieti costruiti secondo le ‘ricette’ tradizionali, ne incontro parecchi, come già mi avevano preannunciato gli amici. Pannelli illustrativi spiegano come i mastri parietari realizzassero queste strutture: completamente a secco, sassi grezzi, ciottoloni e cògoli venivano incastrati con cura, mentre, pietra su pietra, si erigevano filari e paramenti. Niente malta, solo pochi ed efficienti attrezzi e moltissima perizia. Così si realizzavano anche i pagghjari, una variante locale del trullo che qui dava luogo a dimore temporanee e depositi di attrezzi. Nell’oasi ve n’è un gran numero e se ne possono vedere di varie fogge. Alcuni di questi sono stati inclusi nel percorso di visita. Uno dei custodi dell’oasi mi spiega che grazie a una costante opera di vigilanza, si è riusciti ad evitare che atti di vandalismo distruggessero i pagghjari rimasti, oltre che le pur minime attrezzature realizzate a supporto di quanti visitano l’area.
Poco più avanti, immersa in un esteso orto, è Torre San Giacomo, che un cartello mi spiega essere quel che resta dell’antico monastero benedettino di S. Filippo e S. Giacomo, fondato nel XII sec. Il contadino proprietario del fondo, grazie a una speciale convenzione con il Comune, consente ai visitatori di visitarla, almeno dall’esterno: ho sempre visto l’edificio da lontano e in velocità, percorrendo in automobile la SS 16. Riconosco adesso il grande arcone lunato sulla facciata principale, le piccole arcate sui fianchi, e mi colpisce, mai visto prima, uno strano fregio sul lato destro. Quel che però più di ogni altra cosa attrae la mia attenzione è uno strano manufatto che a uno schioppo da lì fa mostra di un singolare ingranaggio di ferro. «ù gènie», indica subito il contadino che evidentemente si è accorto del mio sguardo incuriosito.
Mi ricordo, a quel punto, di aver letto da qualche parte di ingegnose macchine adoperate una volta dai contadini per estrarre dai pozzi di falda l’acqua che avrebbe poi irrigato gli orti adiacenti, sistemi a ingranaggi dentati, azionati da un animale (generalmente un asino o un mulo) che venivano fatti girare in circolo continuamente. Quella che avevo dinanzi era una ‘noria’. «Calco dalla lingua spagnola, il vocabolo è sostituito nel dialetto del posto da gènie», precisa il solito pannello. Articolatissima e puntuale anche la spiegazione del contadino: il movimento impresso dall’animale, mediante una serie di caviglie, veniva trasmesso a due pulegge, all’ultima delle quali era ancorata una catena; qui, ad opportuna distanza, erano posizionati numerosi bicchieri di stagno che da un pozzo sottostante “pescavano” acqua, consentendone lo sversamento automatico in una grande vasca di raccolta, comunicante con numerosissime canalette e ulteriori vasche di accumulo distribuite tutt’intorno e dalle quali si sarebbe poi attinta l’acqua successivamente. “Complimenti davvero”, è l’unica cosa che mi sento di dire al contadino, orgoglioso del suo génie, e però anche innegabilmente soddisfatto del fatto che oggi pompe più comode e veloci abbiano sostituito asini fedeli sì, ma spesso anche assai recalcitranti. Forse a quell’uomo basta che oggi la sua ‘noria’ sia finalmente uscita dal silenzio e che, anche grazie ai suoi racconti, possa entrare nella memoria dei più giovani. L’oasi è anche questo.
Saluto il contadino che non manca di indicarmi, poco distante dal suo podere, un’area di scavo archeologico, aperta da poco. «Roba antichissima», è il suo laconico commento. Effettivamente nella zona adiacente Torre San Giacomo l’Università ha aperto da qualche giorno un cantiere. «Numerosi elementi hanno alimentato negli studiosi il sentore che l’area possa conservare importanti testimonianze di civiltà preclassiche», mi informa un laureando intento a maneggiare i suoi arnesi da lavoro. Adesso è ancora presto perché possa emergere qualcosa, ma mi prometto di ritornare, nella speranza che quel ‘sentore’ possa essere stato nel frattempo confortato da concrete attestazioni di antiche presenze.
Provo a rimontare sulla mia bicicletta, ma di nuovo mi fermo. «Guardi lì, sulla spiaggia, tra i sassi, li vede quegli uccelli? È un gruppo di voltapietre» mi fa il laureando che, evidentemente, è pure esperto di ornitologia. «Se ne vedono tanti da queste parti», continua, «Si tratta di uccelli che arrivano dalla penisola scandinava: hanno sempre svernato nell’oasi persino prima che l’area fosse rinaturalizzata. Venivano anche tra le discariche: sono aficionados della nostra costa». Li osservo: effettivamente non fanno che voltare pietre. «È il loro modo di cercare il cibo, vermetti e altra roba del genere nascosta sotto quei ciottoli». Davvero curiosi, questi uccelli.
La mia passeggiata riprende. Lungo il percorso quasi mi sfiora una garzetta in volo. Riesco a riconoscerla da solo. Soltanto perché è della stessa famiglia degli aironi, la specie che sin da quando ero bambino mi affascina più delle altre, e che, però, ho sempre visto in foto su vecchi manuali scolastici. «E pensare che avevo le garzette quasi a portata di mano, praticamente dietro casa», mi dico.
Pochi metri ancora e già scorgo Torre Calderina. La pista ciclabile, però, si sposta nell’entroterra. «Un vero peccato», penso. Il custode dell’oasi mi aveva preannunciato quella deviazione, aggiungendo che la natura dei luoghi aveva reso impossibile la prosecuzione del percorso lungo il mare. Mi addentro, mio malgrado, nel ‘retro-costa’, ma l’inatteso spettacolo è di nuovo sorprendentemente piacevole: ancora pagghjari e maestosi muri a secco restaurati a regola d’arte da novelli parietari, fichi d’india, ulivi (alcuni dei quali protetti dai freddi venti boreali ad opera di ripari costruiti anch’essi in pietra a secco), e tanta macchia mediterranea bassa, modellata dal vento che spira dal mare. Fiori di loto, cespugli di mirto, lentisco e ginepro, e persino numerosi esemplari di orchidee del genere Ophris: è una fortuna che vari cartelli sparsi lungo il percorso mi aiutino a riconoscere le specie vegetali presenti.
L’oasi non delude neppure nei particolari. Da un pezzo sono fermo qui, poco distante da Torre Calderina. C’è altra gente distesa che legge un libro o che, forse, scruta semplicemente il cielo, godendosi le geometrie disegnate dalle planate degli onnipresenti gabbiani. Altri passeggiano verso il mare, in direzione di una sorta di accampamento berbero, ai piedi alla torre. «Che i saraceni stiano cingendo d’assedio la fortificazione vicereale?», mi chiedo sinceramente incuriosito. In realtà quelle tende e quei capanni non sono altro che una forma inconsueta adoperata per offrire servizi ai bagnanti. Una soluzione senza alcun dubbio reversibile e di basso impatto, non c’è che dire: a fine stagione si smonta tutto e non resta alcuna traccia dell’insediamento. D’altronde gli stabilimenti balneari sino a non molti anni fa era della stessa natura. Niente cabine prefabbricate e spiazzi più o meno cementificati per sdraio e ombrelloni, e così d’inverno, a ‘stagione’ conclusa, restava solo la spiaggia.
Mi avvicino all’accampamento e, indicando una tenda, chiedo a un signore che ci sta lavorando attorno: «Mica voleranno via?». E’ eloquente l’espressione di sufficienza prodotta dalla mia domanda sullo sguardo dell’interlocutore. «Guardi che noi facciamo tensostrutture da decenni e conosciamo bene le regole del mestiere... E poi ci sono popoli che addirittura vivono in tende come queste, in tutti i continenti e in condizioni climatiche ben più severe di quelle che potrà trovare qui d’estate». Capita la lezione? Così imparo a non tenere chiuso il becco! E, a proposito di becchi, noto una sagoma bruna che sorvola il mare: è un cormorano o almeno mi pare assomigli a quello raffigurato nella tabella incontrata poco fa lungo la pista ciclabile. È un po’ che quell’uccello incrocia su questo tratto di costa, probabilmente qui si pesca bene. Dev’essere proprio così: ci sono molte barche che in questo momento fanno, evidentemente, concorrenza al solitario cormorano e ai più socievoli gabbiani. Con loro, altre creature scure e, pare, altrettanto efficienti: i pescatori subacquei.
Niente più canali di scolo, niente più maleodoranti sbocchi a mare della fogna: «la prossima estate la cala di Torre Calderina – penso - sarà la più bella spiaggia pubblica della nostra costa». Poco distante è una folta zona d’ombra creata dai pini d’Aleppo (finalmente una pineta sul mare!) e tanta vegetazione arbustiva tutt’intorno.
Di qui si vede bene Torre Calderina, una solida costruzione militare della seconda metà del Cinquecento (di nuovo le ricerche scolastiche mi vengono in aiuto), costruita su una punta rocciosa a mezza strada tra Bisceglie e Molfetta, all’interno di un generale programma di difesa dalle incursioni saracene delle coste del Regno di Napoli. La scala che ricordo da sempre semi-diroccata, è stata finalmente risistemata e conduce il visitatore all’ingresso soprelevato, mentre tutta la fabbrica ha subito un discreto restauro. Sulla torre sventola un’appariscente bandiera gialla. «È la bandiera di Legambiente», mi spiega ancora l’operaio. «La torre è stata adottata da alcune scolaresche che fanno parte delle Bande del Cigno di Legambiente: lo so perché vi ha partecipato pure mio figlio». L’iniziativa, come leggo poi su un tazebao lì vicino, è coincisa con l’allestimento all’interno dell’edificio di una mostra sul sistema delle torri costiere pugliesi. Ancora qualche giorno e la mostra sarà aperta al pubblico, come informa un avviso. Un motivo in più per tornare a fare una passeggiata da queste parti.
Ritorno sul percorso ciclabile e incontro le indicazioni per un parcheggio che scopro essere in tutto e per tutto simile a quello di Cala San Giacomo: arbusti, alberi, terra battuta e niente asfalto, e soprattutto una netta separazione tra le automobili e gli spazi verdi che non crea alcun attrito tra le due parti.
La passeggiata in bici è piacevolissima a quest’ora del pomeriggio: il sole calante tinge d’un bel giallo‑arancio caldo le pietre dei parieti e dei pagghjari, i fichi d’india, la chioma dei carrubi e degli alberi di fico che punteggiano la macchia attorno alla strada. Mi avvicino al confine tra Molfetta e Bisceglie. Percorro un tratto di pista che rasenta il mare in corrispondenza di uno stabilimento balneare, e mentre pedalo mi assale un “triste ricordo”: «Dove ora è questo candido parietone in pietra calcarea, non era forse un brutto recinto di cemento e tubi di pvc colorati di bianco turchese?». Mah.
Subito dopo inizio ad intravedere tra i pini un edificio costruito a poche decine di metri dalla battigia. Si tratta d’un voluminoso capannone in cui si fa acquacoltura, certo non bellissimo, ma adesso, circondato da alberi che ne attenuano l’impatto visivo, quantomeno appare più tollerabile. E poi da quando qui si arriva con le bici il gestore dello stabilimento ha pensato bene di aprire un punto di degustazione di specialità marinare nostrane. Qualcuno non ha resistito (e neanch’io lo farò): vedo una comitiva di ragazzi, fino ad allora alle prese con lo jogging, ben contenta di dedicarsi ora a pepate di cozze, ricci e frutti di mare.
Sarò tra breve al “Pantano”: i biscegliesi più informati ricordano che agli inizi del ‘600 tale vescovo Albergati progettò la costruzione di una grande peschiera in questa zona, ma l’opera restò incompiuta e, resosi impossibile l’accesso al mare, le acque formarono, per l’appunto, un vasto pantano.
Ed ecco la stretta insenatura del Pantano. Lo specchio d’acqua antistante è pieno di barchette, su cui esperti pescatori segnati dal sole preparano reti o attendono, assorti, alla manutenzione delle loro non più giovani imbarcazioni. C’è grande silenzio, a dispetto di quelle numerose presenze. «È per questo che - mi spiega quasi sottovoce un pescatore - calpestano la riva quei due cavalieri d’Italia che lei stesso può vedere là, verso il fondo». «Cavalieri d’Italia? Ma che roba è?», faccio io, al solito poco esperto. «Uccelli che potrà quasi sempre incontrare nel nostro Pantano: si riconoscono facilmente per le loro zampe esili, rossastre». Eccoli laggiù, i due cavalieri. Siamo sottovento, non possono sentirci. Li guardo e solo adesso colgo il probabile senso di quel nome: elegantissimi nel portamento, quasi spocchiosi nel loro fare, si tengono tra la riva e il mare, forse cercando anche loro cibo.
Un pannello m’informa che alle spalle dei due uccelli, verso l’interno, si sviluppa il corridoio ecologico di Lama di Macina, che poi muta nome in Lama di Santa Croce, un lunghissimo solco erosivo che giunge qui dall’altopiano murgiano (oggi Parco Nazionale) incontrando lungo il suo percorso varie grotte e il noto Dolmen della Chianca. Si tratta di un avvallamento, che, come tutte le lame, è non solo essenziale ai fini dell’equilibrio idrogeologico del territorio, ma anche utilissimo all’economia contadina e bellissimo per lo stupefacente lussureggiare della vegetazione. Uliveti, orti e soprattutto rigogliosi vigneti, si estendono a vista d’occhio nella lama, tutt’ora orgoglio della popolazione biscegliese.
Riprendo la mia passeggiata e, lasciandomi alle spalle il Pantano e il mare, mi addentro tra le campagne, avvicinandomi all’abitato di Bisceglie che ormai lambisce l’area protetta. Giunto quasi in città incrocio la vecchia Carrara San Francesco che, svoltando, mi riconduce verso l’Adriatico. Costeggio una marmeria. Il pescatore mi ha detto che presto diventerà un albergo. Una suggestiva dimora con mirabile vista sul mare: molto romantico, non c’è che dire. Speriamo soltanto che non se ne abbiano a male i permalosi cavalieri d’Italia.
A destra incontro una struttura che invece è stata già riconvertita: un’architettura geometrica ed essenziale che, mi sembra, si integri con il luogo, senza adottare escamotage mimetici, ma adoperando i materiali della tradizione locale (la pietra calcarea e l’intonaco bianco). Se il primo piano mi sembra occupato da uffici (sì, è così: riconosco la targa dell’ente di gestione dell’area protetta), il pianterreno è chiaramente una sorta di museo: un vasto ambiente custodisce i reperti rinvenuti nelle aree archeologiche adiacenti; nella zona del Pantano, infatti, furono scoperti negli anni ’60 resti di un villaggio preclassico, mentre proprio alle spalle di questo museo dovrebbe esserci un sito neolitico che ha restituito cocci di vasi, selci, ossidiane di provenienza essenzialmente garganica. È quel che ritrovo qui esposto. Sapevo che il materiale preistorico rinvenuto nell’agro biscegliese era conservato nei musei di Taranto e di Bari, evidentemente ora è tornato nel suo luogo di provenienza, a lasciare memoria di sé anche nei più distratti ‘ciclisti dell’oasi’.
A questo punto debbo abbandonare la mia bicicletta, ovviamente in una rastrelliera con lucchetto che mi dicono sicura e sorvegliata. Inizio a camminare lungo un sentiero sul mare. Appare, improvvisa, la Cala di Ripalta. Ricordavo appena quel posto, che ora, complice forse anche il gioco di luci, mi sembra straordinariamente bello. Da quassù basta un attimo per fingere persino di trovarsi sulle nude scogliere della Cornovaglia.
Presidiano i due lati dell’insenatura – divenuta anch’essa una spiaggia pubblica attrezzata – le ‘grotte di Ripalta’ (in due serie). Quelle a est della spiaggia sono accessibili da terra e, sottratte finalmente al degrado determinato dalle solite micro-discariche e da una orribile cancellata corrosa dalla ruggine, mi appaiono per la prima volta nella loro interezza.
Cammino lungo l’alto costone che precipita in mare, e arrivo, infine, sulla punta del promontorio di Ripalta. Il sole sta tramontando e la vista che di qui si gode è il giusto epilogo della mia prima passeggiata nell’oasi: dal profilo netto del Gargano, a Torre Calderina, alle due torri campanarie del Duomo Vecchio di Molfetta, alla Cattedrale di Giovinazzo, fino al faro di Punta San Cataldo a Bari, il mare si riappropria interamente dei suoi luoghi, lasciando persino ai meno sensibili come me, l’incanto di un panorama mozzafiato.
Mi aspetta il percorso di ritorno verso Molfetta. La pista ciclabile tornerà a infilarsi nell’interno dell’agro per poi sbucare sul mare nei pressi della Cala S. Giacomo. Forse, qualche metro più in là, racconterò quel che ho visto ai solerti funai.